Per alcuni disegni di Raffaele Gerardi. E’ un’ossessione vorace, ultimativa, quella che guida le mani di Raffaele Gerardi su questi fogli, l’ossessione non contrattabile del vedere e del raccontar vedendo, senza per questo rinunciare al paradosso di una cecità posta come condizione primaria al fare, all’agire artistico. Poiché d’una cecità, questi fogli parlano, dell’impossibilità del percepire quotidiano, dell’affollamento delle visioni al di sopra degli eventi, dei motivi oscuri che regolano le trasfigurazioni dei volti e dei gesti. Della cecità di chi guarda, forse. Pochi segni, sul foglio, chiari, evidenti al limite dell’elementarietà, di una voluta maleducazione: non si perde Gerardi, in specificazioni, postille e abbellimenti; una pratica lunga ha reso il suo tratto essenziale, mirato subito allo scopo, all’immagine e alla sua possibilità di comunicare. Nascono, allora, volti e figure, animali e spazi, ed eventi, soprattutto, digressioni rapide dal nucleo centrale, parentesi del senso, sospensioni del significato, piccoli incidenti ricchi d’importanza. Fluttuano, a volte, sulla pagina, interi corpi o particolari anatomici; si rifugiano in nicchie o vengono travolti dai refoli del colore, quei rossi aranci e neri scagliati sulla superficie come se provenissero da una terra sconosciuta, presenze allarmanti o rassicuranti appoggi al sogno. Il sogno d’un entomologo inquieto, d’un enciclopedista ai limiti della follia, che ha scoperto l’inutilità delle sue classificazioni e pure continua in quell’operazione di scandaglio di tutto il visibile, ma senza più certezze, con solo la mente a far da guida, a proporre visioni su visioni, non più verificabili ma altrettanto vere, e forse più: da qui nascono i brani più acidi di Gerardi, quelli che meno concedono al rassicurante meccanismo del riconoscimento; da qui, anche, quel sottofondo ghignante, aspro, che permea l’intera serie di disegni del volume odierno, un sottile richiamo di Gerardi a quelle poetiche dello humour nero che tanta parte hanno avuto nella storia, recente e non, della cultura visionaria. Anni, ormai, sono trascorsi dall’esplosione di affetti e individualità che hanno segnato le stagioni penultime dell’arte, anni che oggi paiono troppo distanti, travolti da altre e diverse sensibilità: eppure, certo non sono venute meno le necessità espressive di quel periodo nelle mani di Raffaele Gerardi, in quel clima formatosi. Non di precise parentele formali, si tratta qui, ma d’una condizione mentale, d’un bisogno di rapportarsi al mondo attraverso – e non malgrado – la pittura; il bisogno, ancor più, di dare vita a un mondo, che solo sulla superficie può germinare e diventare vivo, concreta presenza d’immagine. Da qui, credo, nasca l’amore di Gerardi per un segno che si faccia a sua volta immagine, traghettatore di sensi e non pretesto formale; questo dicono le teste mozzate, trasposte via dal corpo da una “pennellata” arancione, questo dicono le imposte cecità dei suoi personaggi, che paiono alitare sentimento, e stupore, e affetti senza colpa, e cercare verità lontane, probabilmente irraggiungibili. Questo, infine, il paradosso che anima questi fogli, e ti costringe a prenderne atto, come d’una presenza che non t’attendi nella odierna pacificazione generale del mondo artistico: che grazia e angoscia esistano ancora, e si provino a convivere, a nervi scoperti, come un cuore pulsante in una landa desolata o, é lo stesso, nel corpo di un maiale. Incarnarsi, vero, del segno, e volo altrettanto vero d’una fantasia non ancora omologata: per ciò valgono, oggi, questi disegni. Walter Guadagnini